di Sonia Serafini
Alaska Baby, il nuovo album di Cesare Cremonini, è un disco intimo senza spazio né tempo, che ripercorre un viaggio dell’anima che ha portato il cantautore bolognese fino ai confini del mondo per ritrovare sé stesso e la sua musica.
Dopo 45 giorni di nebbia emiliana, l’artista decide di prendere il poco necessario e partire alla ricerca di un modo per riconnettersi, scegliendo come prima tappa il sole di Antigua con la luce dei Caraibi, per poi esplorare l’America e le sue sonorità: Johnny Cash, Bob Dylan, New Orleans, Los Angeles, Nashville. L’ultimo tassello di questa cartina dell’anima lo trova nell’attesa aurora boreale dell’Alaska, che si rivelerà come una premonizione. Per scrivere questa intervista decido di mettere in sottofondo una canzone che Cremonini nomina durante il nostro incontro, per cercare di comprendere a pieno la complessità delle sue risposte, dare voce a mezz’ora di discorsi sulla vita, l’arte e l’amore, scoprire dove gioca a nascondino, quando si apre rispondendo con autenticità e quando dribbla e si salva in zona Cesarini – pardon, zona Cremonini. Premo play su “Mind Games” di John Lennon e la canzone inizia così: “We’re playing those mind games together…” e capisco che forse me l’ha fatta anche su questo, che re non si diventa per caso, ma si nasce, come lui.
Se si pensa all’Alaska il primo pensiero va ad un luogo freddo e gelido, ascoltando il suo disco invece sembra un posto pieno di emozioni che scaldano il cuore. Come è riuscito a trasformarlo?
«Perché la cosa più bella del mio mestiere non è scrivere canzoni o godere dell’applauso del pubblico, la cosa che amo di più è trasmettere un senso di umanità a chi mi segue, è un dono. In questa forza trasformativa anche l’Alaska muta e diventa un luogo dell’anima».
Come si riesce a farlo per 25 anni, a trasformare, trascinare, portare le persone nei luoghi del cuore insieme?
«Sono un artista “ponte” che si è trovato in mezzo tra il ‘900 e quello che è venuto dopo. Il mio compito è stato aggregativo per più generazioni. Allo stesso tempo provo, però, a essere un artista che tiene insieme anche l’idea che le persone hanno di loro attraverso quelli che sono i punti di riferimento. Non ne sento il peso o la responsabilità, è un ruolo che vivo con naturalezza, mi piace fare parte della vita del Paese e delle persone».
Potrebbe suonare presuntuoso.
«L’unica che ho di presunzione è quella di pormi come un’anima abbastanza universale, che riesce ad abbracciare tanta gente. La mia sensibilità è un qualcosa di utile sia per dire a parole quello che le persone non sanno dire, sia quello che provo io. Siamo insieme in questo viaggio».