Intervista a Ewan McGregor

“Long Way Home”: l’ultima (forse) grande avventura di Ewan McGregor su due ruote

di Sonia Serafini

 

Quando sei sulla strada, una parte di te non vuole mai fermarsi. È con queste parole che Ewan McGregor sintetizza l’anima di “Long Way Home”, la nuova docuserie disponibile su Apple TV+ girata sempre con l’amico fraterno Charley Boorman.

 

Dopo “Long Way Round” (2004), “Long Way Down” (2007) e “Long Way Up” (2020), un nuovo viaggio su due ruote attraverso 17 paesi europei – dalla Norvegia fino alla Scozia – che segna un ritorno non solo a casa, ma a una parte di sé che non ha mai smesso di cercare la libertà.

 

Lo abbiamo incontrato in occasione della conferenza stampa di lancio. Ed è stato come parlare con un uomo che ha ancora la polvere della strada negli occhi.

 

 

Perché tornare in viaggio?

«Durante “Long Way Up”, tra un sobbalzo e l’altro in Bolivia, io e Charley parlavamo attraverso i caschi. A un certo punto ho detto: “Sai cosa mi piacerebbe davvero? Viaggiare in Scandinavia”. Mi affascinava l’idea di quei cieli infiniti, di quella luce del nord. Quando sei quasi alla fine di un viaggio, inizi già a sognare il prossimo. È un meccanismo di sopravvivenza emotiva. La strada è anche un modo per non affrontare lo stop».

 

La scelta dell’Europa, è stata dettata sia dalla nostalgia che dal senso di sfida?

«Il bello dell’Europa è che ogni paese è un mondo a sé. Cambia tutto: lingua, paesaggi, storia. Eppure è tutto lì, a portata di ruota. All’inizio pensavamo di fare un viaggio breve, da casa mia in Scozia a quella di Charley in Inghilterra. Ma poi il percorso si è allargato, si è trasformato in un grande cerchio. Era inevitabile: non sappiamo resistere all’orizzonte».

Come si gestiscono gli imprevisti, come l’incidente in Danimarca?

«Sì, sono caduto. Una stupidaggine. Cercavo un punto per far decollare il drone, ho sbagliato l’angolazione del marciapiede e la moto è finita a terra. È imbarazzante, soprattutto quando sei in una produzione Apple con tutte le telecamere addosso. Ma succede. La cosa bella è che un gruppo motociclistico svedese ci ha aiutati subito. Mi hanno persino offerto delle ciambelle incredibili. C’è un’umanità che si rivela nei momenti piccoli e ti rimette in piedi più della moto stessa».

Viaggiare oggi è diverso, siete cambiati, avete più responsabilità. Come ha affrontato la distanza emotiva soprattutto dai figli?

«Ora ho un figlio piccolo e vivere il viaggio con questa consapevolezza è stato diverso. C’è un episodio in cui è la Festa del Papà e lì ho sentito tutta la distanza. È un momento in cui ti domandi: sto facendo la cosa giusta? Ma poi capisci che anche questo fa parte di ciò che sei. Viaggiare mi completa, anche se significa mancare per un po’. Il cuore resta sempre collegato».

 

Viaggiare vs girare un film: c’è differenza?

«Sul set, tutto è previsto. In viaggio, no. Ed è proprio questo che amo. Ricordo che dopo “Big Fish”, in Alabama, comprai una moto e tornai a Los Angeles da solo. Niente troupe, niente copione. Solo io, la moto e la strada. Fu una delle esperienze più intense della mia vita. È lì che ho capito che il viaggio vero è un atto creativo».

Ma quindi, è davvero l’ultimo viaggio?

«“Long Way Home” suona come una chiusura, lo so. Ma per me non è un addio. È un ritorno. Un cerchio che si chiude, sì – ma che potrebbe anche riaprirsi. Finché ci sarà una strada davanti, io ci vorrò andare. E so che non sarò mai davvero “arrivato”».