di Sonia Serafini
C’ è chi parla per farsi notare, e chi sceglie con cura ogni parola per restare in disparte. Guido Maria Brera appartiene alla seconda categoria. Autore, narratore, produttore: il suo nome circola tra chi ama le storie che scavano, che pongono domande scomode, che non hanno fretta di compiacere. Eppure, su di lui, si sa poco o nulla. Nessuna sovraesposizione, nessun personaggio costruito. Solo il lavoro, le parole, e un’ossessione silenziosa per il tempo che scorre.
Dopo il successo di “Diavoli”, Chora Media, che ha rivoluzionato il mondo dei podcast in Italia, si lancia in Be Water, che con Chora e Will si occupa della produzione non solo di podcast, ma anche video e contenuti giornalistici, e Be Water Film, la società di produzione e distribuzione cinematografica per cercare di portare la sua visione anche nel mondo della settima arte. Be Water è il risultato di un team di professionisti di alto livello, Barbara Salabè (AD del Gruppo Be Water), Mario Calabresi (Presidente e Direttore Editoriale di Chora e Will), Mattia Guerra (AD di Be Water Film), Riccardo Haupt (AD di Chora e Will) e di una squadra con cui affrontare nuove avventure. In un momento storico dove tutti si raccontano a voce alta, lui preferisce farlo a bassa voce, far parlare il suo lavoro. In podcast, nelle notti inquiete in cui scrive, nelle pause tra un progetto e l’altro.
Lo abbiamo incontrato per parlare non solo del mestiere di raccontare, ma di ciò che resta quando le luci si spengono: il peso delle aspettative, la paura di non essere mai abbastanza, la nostalgia come bussola e rifugio.
Com’è possibile che un uomo come lei, con un lavoro tanto esposto, abbia così poco di sé online? C’è tantissimo sul suo lavoro, ma pochissimo su chi è lei davvero.
«È vero, parlo poco di me. Scrivo molto, questo sì. Ma dentro i miei libri c’è molto più di quanto sembri. Solo che devi cercare. È tutto un po’ nascosto, mescolato. Non mi piace far parte di quel coro di persone che sentono il bisogno costante di raccontarsi».
Per scelta, quindi?
«Sì, trovo che ci sia qualcosa di stucchevole in questa sovraesposizione. E, a dirla tutta, credo che alla gente interessi più ciò che uno racconta, che chi lo racconta. O almeno, spero sia così».
Riconosco in lei questa riservatezza. Ma poi arriva un podcast, si sente la libertà di racconto e la voce fa il resto.
«Lo amo il podcast. Davvero. È servito, mi ha permesso di mostrare qualcosa in più, ma in un contesto che mi somiglia. Accogliente, intimo. Molto diverso dalla televisione».
Crede che in Italia i podcast siano stati capiti?
«Non subito. Qui li hanno associati ai talent, a qualcosa di già visto. In America invece hanno una funzione narrativa, informativa. È come bere un caffè con qualcuno e parlare di vita. Il podcast è adulatorio, non ti mette in difficoltà. È orale, diretto».
Sul tempo, le priorità, la nostalgia.
Ha dichiarato che non si sente mai pienamente soddisfatto. C’è questa fame continua, questa smania in lei, è così?
«È stanchezza, in realtà. Il problema non è fare tante cose, ma farle bene. Ho imparato a darmi delle priorità, a tenere il focus. La finanza mi ha insegnato a farlo».
Però c’è anche una paura dietro.
«Sì, è la paura del tempo. Del tempo che scappa via mentre fai, fai, fai. Il passato per me è casa, rifugio, ispirazione. E il presente è qualcosa che fatico a vivere».
Vive nel passato, guarda al futuro. E il presente che ruolo gioca?
«Cerco di ricordarmi che esiste. Cerco di correggermi. Ma non è facile, non lo è per nessuno oggi. Viviamo tutti proiettati verso qualcosa. Anche solo arrivare a fine mese è una proiezione».
Oggi tutti programmano. Vacanze, obiettivi, vite. Lei?
«Non ci riesco. Mi mette ansia. Io non so nemmeno cosa farò domani. E vedo questa ossessione di raccontare sui social la vita che vorremmo avere. Ma spesso non è la nostra. È una maschera. È una forma di inadeguatezza travestita da ambizione»